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Michele Neri: Il silenzio che mi è stato rubato: storia del mio acufene.

Pubblichiamo un breve racconto letterario di Michele Neri pubblicato sul Corriere della Sera.

 

-Piove?

 

-Non lo senti?

È notte da un po’: quanto basta per aver appoggiato la testa al cuscino in attesa del sonno. La mia camera da letto affaccia su tre alberi. Carpini.

Sarebbe così bello abbandonarsi a quei pensieri esteriori e venuti dall’alto che sono i picchiettii metallici della pioggia contro le foglie, o ai baci monotoni delle gocce sul prato.

Se non me lo dice qualcuno, al buio io non so che sta piovendo.

Tra me e quel grembo liquido e in bianco e nero, s’è intromesso un filtro invisibile, un allarme che nessuno spegne.

Da otto anni soffro di fischio all’orecchio, o acufene o tinnitus.

Era nato con una domanda — non sono appena uscito da una discoteca, un bar rumoroso, e allora, perché diavolo il fischio non se ne va? — e si è imposto in ogni ora, esaltandosi nelle più miti.

In biblioteca quando di colpo alzi lo sguardo; sulla neve, mentre butti fuori il fiato facendo una «o»; nella vasca da bagno, ora che il rubinetto non gocciola… Tutto è ronzio di un insetto intrappolato nell’orecchio.

Il silenzio non tornerà. L’hanno confermato otorini, neurologi, gnatologi, colleghi di fischio, terapie dolci e risonanze, app che dovrebbero confondermi con onde di «rumore marrone». Perché il fischio, questa cosa stupida, è uno degli insondabili misteri della coclea o chiocciola. Arriva.

Rassicurato che è «una delle più diffuse malattie sottovalutate al mondo» — l’American Tinnitus Association — cos’altro fare?

E magari proprio mentre sono lì, a letto, non più erede assoluto di un momento perché lo devo spartire con l’insetto, e se mi concentro per cogliere un solo istante d’acqua, appena prima di raggiungermi, evapora via, come dal cofano surriscaldato di un’auto che, simile a me, produce un inarrestabile tic.

Quando il rumore del silenzio se n’è andato, ho capito che era un amore importante. E che del rumore, che gode cattiva stampa, non possiamo parlare con noncuranza: è con il rumore, che si conoscono e ricordano luoghi e momenti per come sono, senza aggiustamenti o compromessi.

Non ho mai dovuto convenire sul rumore, semmai sul fastidio delle bottiglie lanciate nel cassonetto. Ho così provato a stilare un inventario di quelli perfetti. Rumori amici, consolatori o premesse di godimento.

Il rumore è perfetto per te solo; è amato contro, e salvo pochi — bordate di grilli estivi fuori dal finestrino, l’annuncio incerto del caffè dalle profondità di alluminio — non è condivisibile e non si consuma per il troppo entusiasmo, come la musica.

Il rumore è single: non ti aspetta come un cane. Odia l’abitudine.

Che il desiderio di un rumore potesse essere terribile, l’ho scoperto negli anni Settanta. Uscì Solaris di Tarkovskij. A milioni di chilometri dalla Terra, l’astronauta attacca alcune striscioline di carta alle bocchette del condizionamento. Sogna di sentire il rumore del vento tra le foglie. Si concentra: è di nuovo nella sua campagna russa.

Il dialogo tra vento e foglie è una scienza. Forse potrei ancora riconoscere il più toccante, quello che fa barcollare il pinnacolo degli eucalipti in una mediterranea ora pomeridiana. Così più mondano del tumulto estratto dai corpi scuri dei pini marittimi.

Niente rispetto al biologo David George Haskell (The Song of Trees). Sa riconoscere cento alberi a occhi chiusi, soltanto dal rumore che la pioggia produce sulle foglie.

C’è stato il sibilo dello Zündapp KS 125 sull’asfalto milanese. Un urlo bisex che trafiggeva il corpo. Estremo come quel 1977 milanese, quando si avventava come un lupo nel cuore tondo della città. Lo scatto di quella chiave all’improvviso; se sai che soltanto un’altra persona la possiede, ma non sai se l’avrebbe adoperata ancora.

L’ansimo che avverte la chiusura delle porte sulla metropolitana parigina, un mi-bemolle esitante in cerca di conferme.

Dopo Apocalypse Now ogni flap-flap di ventilatore trasforma il soffitto in uno schermo. Il suono più forte del previsto che introduce nelle narici l’aria aspirata profondamente prima di una decisione. Ti sta dicendo: chi se non te?

Cercavo un rumore che custodisse il senso della paternità. È in A sangue freddo di Truman Capote. Perry, uno dei banditi: «Io pensavo sempre a papà, sperando che potesse portarmi via, e ricordo, come fosse un momento fa, la volta che lo rividi. Nel cortile della scuola. È stato come quando la palla colpisce la mazza proprio in pieno. Alla Di Maggio».

Il rumore è insieme consapevolezza delle circostanze e prova della follia universale. Se no perché, arrivato sulla battigia, un oceano intero può accontentarsi, e per me, del sussulto gioioso di qualche sassolino?
Sdraiato in una bolla senza pioggia, di colpo uno scroscio. È lo sciacquone delle 00:30. Mi piace. Credo sia il modo scelto dai vicini per tenermi compagnia e dirmi che adesso è proprio ora di dormire.

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