Jo Milne in fuga dal silenzio. La sua storia in un libro

Breaking the silence” è il libro che narra la storia di Jo Milne, una donna di 39 anni affetta da sindrome di Usher e di conseguenza sorda dalla nascita la quale ha deciso di sottoporsi a un rischioso intervento di impianto cocleare

Il libro ripercorre il doloroso percorso di uscita dalla sordità, un estratto tradotto è stato pubblicato dal quotidiano “Huffington Post”.

Racconta Jo Milne:

Il mio cane guida, Matt, scodinzola ai miei piedi. Siamo nel vagone affollato di un treno e sto cercando di costruirmi un’immagine mentale degli altri passeggeri. Sento un forte, dolce profumo. Gli altri passeggeri probabilmente non l’hanno notato – sono troppo impegnati a leggere, chiacchierare e guardare i loro smartphone. Ma, per me, è un indizio: questo delizioso profumo appartiene a una ragazza che sta andando a incontrare il suo fidanzato? O è forse un primo appuntamento? Non posso vederla, ma so che è qui. Posso sentire anche l’odore del caffè. Mi raccomando sempre di stare attenta quando sono vicina a bevande calde. Vorrei poter parlare con ogni persona nel vagone. Guardarli negli occhi, chiedergli come è stata la loro giornata e raccontargli la mia. Invece resto qui, intrappolata in un mondo d’oscurità, interrotto solo dai suoni lontani e sfocati che il mio apparecchio acustico mi permette di sentire.

Manca solo un mese all’impianto cocleare. Mi hanno detto, dopo 39 anni, che potrei finalmente sentire le voci dei miei cari. I medici dicono che ho ottime possibilità. Ma ci sono dei rischi. Se il mio nervo uditivo sarà danneggiato potrei perdere anche questi suoni sfocati a cui mi sono aggrappata finora. Mia madre mi dice sempre che vado bene come sono.

“Vai bene come sei, Joanne. E se andasse male?”

E se non andasse male? E se potessi mettere un apparecchio acustico un’ultima volta e non doverlo togliere mai più?

So che un giorno perderò anche ciò che resta della mia vista. Soffro di retinite pigmentosa.

Si tratta di un altro dei sintomi della Sindrome di Usher, la rara e crudele malattia genetica che mi ha derubato l’udito sin dalla nascita. Dal momento in cui ho iniziato a perdere la vista, poco prima dei trent’anni, non ho più visione perimetrica. Tutto quello che vedo è un piccolo tunnel chiaro che mi permette di guardare dritto di fronte a me e di leggere le labbra.

Dopo l’operazione, sono nella mia casa a Gateshead. Gli specialisti dicono che l’operazione è andata bene, ma devo comunque aspettare un mese prima che gli impianti possano essere accesi. Solo allora saprò la verità. Non posso più usare il mio apparecchio acustico. Ho paura di restare così per sempre, il silenzio è una compagnia deprimente.

Mia madre ed io siamo sedute vicine nella sala d’aspetto dell’ospedale. C’è uno schermo che mostra quanto tempo devo attendere prima che sia il mio turno.

Mancano dieci minuti: Mi rannicchio nel sedile, mia madre fa lo stesso.

Sei minuti: Oggi è il giorno dell’accensione. Un giorno che ho atteso tutta la vita, senza saperlo.

Cinque minuti: Quella paura fastidiosa non se ne va… E se l’operazione non fosse riuscita?

Tre minuti: Guardo lo schermo e deglutisco.

Un minuto: Sto guardando il pavimento quando vedo un paio di scarpe nere. Alzo la testa e intravedo un volto familiare; sento le vibrazioni di mia madre al mio fianco.

Louise, l’audiologa, allinea attraverso un computer i 22 elettrodi nel mio orecchio destro. Inserisce dei fili dietro il mio orecchio: la prima volta, sono freddi e duri. Mi chiede di premere un bottone appena sento un suono. Le ci vuole più di un’ora per completare l’operazione per entrambe le orecchie.

Aggiusta il volume. Sento solo dei beep, suoni oscuri a cui sono già abituata. Louise mi guarda, e chiede:

“Sei pronta per l’accensione?”

Ogni lettera e ogni sillaba rimbalzano sulla parete, sul soffitto, sulla porta, nelle mie orecchie; rimbalzano nel mio cervello.

“Riesciiii… aaaa… seeentirmiii?”

Sono le prime parole che abbia mai ascoltato.

Il mio cervello cerca disperatamente di stare dietro ad ogni nuovo suono; riesco a sentire le sillabe e a percepirle distintamente.

Questa sono io, Joanne Milner, seduta in una stanza, ascoltando i suoni per la prima volta.

L’audiologa mi ripete i giorni della settimana, lentamente. Parole che ho da sempre conosciuto, ma non ho mai sentito davvero. Mi dice che le parole per ora suoneranno piuttosto alte, ma il mio cervello presto si abituerà.

“Puoi sentire la tua voce?” mi chiede. Annuisco. Esclama: “Bene!”

Ogni lettera danza per la stanza, mi avvolge la testa, vibra nell’aria intorno a me.

“Sorridi per la telecamera!” mi dice mia madre, ridendo.

Lei.

Da sempre è stata la mia bocca, le mie orecchie, i miei occhi, tutta la mia vita; e non avevo mai sentito la sua voce, fino ad oggi.”

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